Mario Monicelli
Della Toscana, sua terra di elezione, aveva la battuta sagace, l’irriverenza
e la capacità di saper guardare alla realtà con umorismo e goliardia. Il resto
erano genialità, intelligenza, passione e una grande forza interiore, come quella
di compiere il gesto estremo, pur nella fragilità dei suoi 95 anni, di lanciarsi da
una finestra dell’ospedale dove si trova ricoverato, quando decide che basta,
la vita può finire così.
tratto da PiùMe Magazine n. 4 Aprile 2022 p. 40, a cura di Lara Venè
Mario Monicelli nasce a Roma il 16 maggio 1915, ma molti credono sia nato a Viareggio e a lui che quella terra l’ha frequentata e amata a lungo non dispiace, perché forse toscano ci si sente dentro.
Alla fine degli anni Venti vive a Viareggio che in quegli anni pullula di cultura e arte, dove vivono e si incontrano intellettuali e artisti. Poi si sposta a Prato, a Milano e a Roma dove avviene l’esordio nel mondo del cinema.
Ma è la Toscana che gli rimane dentro, la terra dove nascono le indimenticabili esilaranti storie del conte Mascetti (Ugo Tognazzi) e dei suoi compagni: l’architetto Melandri (Gastone Moschin), il barista Necchi (Duilio del Prete e Renzo Montagnani) e il medico Sassaroli (Adolfo Celi), protagonisti di Amici miei (1975) e Amici miei – Atto II (1982), parabola della vita affrontata come un gioco e la capacità di saper ridere sempre.
Sono film che entrano nell’immaginario collettivo per non uscirne più e insieme ad altri capolavori consacrano Monicelli, con Dino Risi e Luigi Comencini, come uno dei padri della commedia all’italiana. Ed è proprio un suo film, I soliti ignoti (1958), ad essere ritenuto il capostipite di quel genere cinematografico che ha reso famosa l’Italia del grande schermo nel mondo.
La pellicola, con un cast stellare Vittorio Gassmann (che qui esordisce nel ruolo comico), Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale e Antonio De Curtis (alias Totò), ci consegna scene memorabili, che entrano a far parte della storia del cinema, come gli indimenticabili 15 minuti di Totò nelle veste di Dante Cruciani, noto scassinatore a riposo che insegna con dovizia di particolari come si scassinano le casseforti di allora, metodi, dimostrazioni e i tempi di esecuzione perché “ogni cassaforte è diversa dalle altre…ci sono quelle con le sbarre a crociera quelle triangolari e quelle circolari, la chiusura è a tutta tenuta, senza fessura”, ognuna, insomma, richiede il suo mezzo.
Tutto chiaro e tutto facile, in teoria. Poi i ladri maldestri aprono le porte e sfondano muri, trovandosi, per un semplice cambio di mobili, nella cucina dello stesso appartamento.. Il colpo non va a segno. Poco male: nel frigorifero ci sono pasta e ceci, così siedono al tavolo e… cenano!
L’anno dopo, il 1959, è la volta di un altro capolavoro della storia del cinema La grande guerra con Alberto Sordi e Vittorio Gassman nei panni di soldati sfaticati nel perenne tentativo di imboscarsi. Considerato anche come il miglior film italiano sulla guerra.
Del resto, ci vuole del genio a raccontare una storia triste e atroce con la giusta dose di comicità. Ma anche con il coraggio di far emergere la realtà cruda dei giorni del conflitto, depurata da quei fronzoli di retorica, che ne hanno spesso accompagnato il racconto storico con le immagini di un’Italia di patrioti ed eroi.
Seguono poi gli anni di altri successi: L’armata Brancaleone (1966), anche questo tra i più noti e rappresentativi della commedia all’italiana, dove in un improbabile Medioevo si parla dell’attualità e della sua umanità con una lingua immaginaria tra latino, volgare e dialetto, che inventa espressioni rimaste alla storia.
Nel 1968 esce La ragazza con la pistola; a seguire Brancaleone alle crociate (1970), il già ricordato Amicimiei (1975) e Un borghese piccolo piccolo (1977).
Il 1981 è la volta de Il marchese del Grillo con un grande Alberto Sordi nei panni del marchese Onofrio del Grillo, nobile romano alla corte di papa Pio VII, che trascorrere le sue giornate nell’ozio
assoluto, frequentando bettole e osterie, intento a far scherzi e facendosi beffa di tutti perché tanto….”io so io voi non siete un c…”.
Nel 1986 Speriamo che sia femmina, commedia dolceamara con un cast di grandi nomi: Catherine Deneuve, Philippe Noiret, Giuliana De Sio, Stefania Sandrelli, Giuliano Gemma, Athina Cenci, Paolo Hendel, Lucrezia Lante della Rovere.
E ancora, Parenti serpenti (1992) con Alessandro Haber, Cari fottutissimi amici (1994, con Paolo Villaggio e Paolo Hendel), Facciamo paradiso (1995), Panni sporchi (1999). L’ultimo lavoro è Le rose del deserto (2006), anche se Mario Monicelli chiuderà la sua lunga carriera con un cortometraggio di protesta, La nuova armata Brancaleone , realizzato nel 2010 contro i tagli alla cultura e all’istruzione dall’allora governo in carica.
I riconoscimenti
La sua vasta produzione è costellata da diversi riconoscimenti. A partire dalle sette nomination all’Oscar, quattro come miglior film straniero per I soliti ignoti, La grande guerra, La ragazza con la pistola e I nuovi mostri (1977) e due per soggetto e sceneggiatura originali per I compagni e Casanova 70 (1965).
Sette i David di Donatello: Speriamo che sia femmina ne riceve ben tre (miglior film, miglio regia e miglior sceneggiatura), miglior regia anche per Amici miei, Un borghese piccolo piccolo e Il male oscuro (1990) e poi un David speciale nel 2005.
Cinque Nastri d’Argento (miglior sceneggiatura per I soliti ignoti, Un borghese piccolo piccolo, Il marchese del grillo e Speriamo che sia femmina che riceve anche quello per miglior film). Due Leoni d’Oro: uno per miglior film con La grande guerra e l’altro alla carriera nel 1991. Ce ne sono molti anche altri compreso uno particolare e specialissimo.
E’ quello che gli tributa Leonardo Pieraccioni nel film Il ciclone (1996): la voce di Gino, nonno di Levante, è quella di Mario Monicelli. Ed è la sua amata Toscana che ritorna.