Quiet Quitting
Lavorare si, va bene. Ma quel quanto basta, quanto serve senza pregiudicare la propria vita, sacrificare affetti e interessi personali.
tratto da PiùMe Magazine n. 12 Dicembre 2022 p. 32 a cura di Lara Venè
Perché affogare nel lavoro proprio no: a che serve? È più o meno questo il ragionamento che si sta diffondendo un po’ ovunque, soprattutto fra i giovani Millennials e quelli della Generation Z. I primi, la millennial generation, generation Y o net generation, quella che va dai primi anni ottanta alla metà degli anni novanta e gli altri, i nativi digitali, nati tra il 1997 al 2012, condividono la stessa filosofia di vita, quella del “Quiet Quitting”, il fenomeno che da mesi si sta diffondendo nei social e accomuna anche le grandi superpotenze, considerate molto produttive, come Usa e Cina, dove si chiama “mo yu”, ossia la filosofia di “toccare i pesci”.
Cos’è il quiet quitting
Tutto sembra partito dalla nuova generazione che, com’è noto, si esprime a campo libero, senza filtri con un linguaggio diretto e immediato sul social a lei più consono: Tik Tok, il social network cinese dove gli adolescenti ascoltano musica e vedono video. È su questa piattaforma più utilizzata dalla nuova generazione che Zaid Khan, un ingegnere di 24 anni di New York, sdogana la tendenza del quiet quitting realizzando un video a luglio, diventato subito virale, per rispondere alla cosiddetta “cultura dell’hustle”, che tradotto significa “attività febbrile” secondo cui “lavorare 7 giorni su 7, 24 ore su 24, sia bello e normale”.
Nel suo video Zaid Khan parla così: “Si continua a svolgere i propri compiti, ma non si aderisce più alla cultura della competizione verso sé stessi e gli altri, secondo la quale il lavoro deve essere la nostra vita. […] Il tuo valore come persona non è definito dal tuo lavoro!”.
Un approccio al mondo del lavoro del tutto nuovo, che rovescia la cultura dell’andare di corsa, dare il massimo, fare più ore di un orologio, entrare presto in ufficio uscire tardi e magari portarsi il lavoro da finire a casa. E finire per vivere una vita dove al centro sta il lavoro e intorno tutto il resto.
Entrando in un loop di competizione e stress che fa perdere di vista le passioni e gli hobby, gli affetti e tutti i piaceri della vita. Il video di Zaid fin da subito è un gran successo, in molti lo hanno apprezzato e continuano a farlo sostenendolo con grande entusiasmo. A tal punto che il quiet quitting è diventato un mood tra i giovani che non sembrano proprio intenzionati a volersi privare del proprio tempo libero ritenuto più prezioso di un lavoro spesso precario e sottopagato.
Per loro dunque, lavorare a ritmi serrati non ripaga, neppure in termini di carriera che, forse, è stata la spinta che ha motivato le generazioni passate. C’era una regola, prima: si lavora sodo, si fanno rinunce per costruire, mattoncino dopo mattoncino, un posto più prestigioso, più dignitoso e soprattutto più remunerativo. Oggi i millennials e la generazione Z non la vedono così: non aspetto la pensione per fare quello che mi va, realizzare un sogno o coltivare una passione. No, la vita è adesso!
Non solo i giovani
C’è da dire però che Zaid sembra interpretare alla perfezione quello che alcuni studi certificano con indagini e dati. Secondo quanto riporta il Report “State of the Global Workplace 2022” di Gallup (società americana di analisi e consulenza con sede a Washington), ad esempio, risulterebbe che solo il 21% degli impiegati è davvero coinvolto nelle proprie mansioni, mentre il 33% si considera in una condizione di crescita e di benessere.
Il 44% si sente stressato (un record mai raggiunto prima) e la maggioranza non ritiene che la sua occupazione abbia davvero uno scopo o un significato profondo.
In Paesi come la Gran Bretagna solo il 9% dei lavoratori si considera “engaged” o entusiasta. Negli Stati Uniti si arriva al 31%. Particolarmente sfiduciati sono la Gen Z e i millennials.
Perché questa nuova dimensione di vita e di lavoro?
Alcuni osservatori fanno notare che il fenomeno del quiet quitting in realtà è sempre esistito solo che si chiamava diversamente e consisteva nel limitarsi a timbrare il cartellino, evitando le responsabilità, lavorando con poche motivazioni. Come ha fatto notare Anthony Klotz, professore associato presso la School of Management dell’Università del College di Londra, “gli uffici sono pieni di gente che negli anni ha sempre cercato di cavarsela, limitandosi a galleggiare”. Per molti analisti, invece, la pandemia ci ha cambiato.
Un periodo in cui ognuno è stato costretto a cambiare le proprie abitudini, riflettere sulla propria vita, rivedere gli interessi quotidiani. In molti si sono riappropriati di un tempo che la frenesia della quotidianità aveva fatto smarrire e sono tanti coloro che si sono trovati a concludere che, forse, sacrificare i weekend o aumentare le ore da destinare al lavoro non è una priorità. Perché l’importante è coltivare il proprio benessere fisico e mentale.
All’inizio questa nuova consapevolezza ha spinto milioni di persone verso la “Great Resignation”, ossia le dimissioni di massa, perché il pericolo imminente di morire ha spinto tutti a rivedere le priorità. Poi, con il passare del tempo e superata l’emergenza della pandemia, si è arrivati a decisioni meno drastiche, preferendo conservare il posto di lavoro, ma di non metterlo al centro della propria esistenza.
E questo è avvenuto soprattutto nei giovani che non vedono più l’utilità di mettere la carriera davanti a tutto il resto, nella convinzione che impegnarsi così tanto non paga più e soprattutto non corrisponde ad avanzamenti sul lavoro e uno stipendio dignitoso, magari anche in linea con quanto si è studiato.
E allora? Allora faccio il meno possibile!