I diritti delle donne: una strada ancora lunga
tratto da PiùMe Magazine n. 12 Dicembre 2022 p. 28 a cura di Lara Venè
A che punto siamo?
Il caso della morte di Jina Mahsa Amini, avvenuta lo scorso 14 settembre in seguito alle percosse subite dalla polizia morale islamica perché non indossava correttamente il velo, ha acceso di nuovo i riflettori sulla condizione femminile nello stato islamico dove le donne iraniane hanno iniziato a protestare tagliandosi i capelli e bruciano gli hijab nelle strade, contro la rigida applicazione del governo della legge sul velo.
In Iran e nei paesi di religione islamica tagliarsi i capelli è segno di lutto.
La morte di Mahsa ha varcato i confini e ha risvegliato anche le coscienze di molte donne (e uomini) occidentali, che per solidarietà hanno tagliato una ciocca dei loro capelli. Un modo per protestare e diffondere la cultura dei diritti delle donne, non solo in Iran. Di maggior rispetto per la condizione femminile ce n’è bisogno un po’ovunque, anche se ogni paese ha la propria storia, la propria cultura e un sistema di tradizioni e norme differente. E anche se la concezione stessa di diritto assume un valore diverso, è possibile fare il punto sulla condizione femminile nel mondo.
A questo proposito ci viene in aiuto il Woman, Peace and Security Index 2021/2022, un indice elaborato dal Georgetown Institute per monitorare il benessere sociale ed economico delle donne. Nello studio sono stati analizzati 170 paesi, pari al 99% della popolazione mondiale, in base ad alcuni indicatori come inclusività della donna nella società, l’accesso alla giustizia e il senso di sicurezza, considerati indispensabili per vivere una vita dignitosa, in linea con i propri desideri e le proprie ambizioni.
Queste tre macro sezioni sono a loro volta state suddivise in categorie specifiche, come la rappresentanza nel governo, l’accesso ad un proprio telefono cellulare, il diritto di poter gestire le proprie finanze o la possibilità di svolgere un lavoro retribuito. A ogni categoria è stata data una valutazione che poi sommata ai risultati delle altre ha definito la graduatoria.
Quali sono i paesi in cui si vive meglio?
Guardando la classifica, le prime 12 posizioni sono tutte occupate da Stati sviluppati, con poche differenze tra loro. Con l’indice pari a .922 in vetta si trova la Norvegia, seguita da Finlandia (.909), Islanda (.907) e Danimarca (.903). A seguire Lussemburgo, Svizzera, Svezia, Austria, Regno Unito. Olanda e Germania. Il primo paese non europeo della lista è il Canada, al 12esimo posto, mentre gli Stati Uniti sono in 21esima posizione.
In fondo alla lista troviamo i Paesi del sud est asiatico, del Medio Oriente e del Nord Africa, piegati da leggi discriminatorie, dai conflitti locali e svantaggiati dal punto di vista economico. Per citarne solo alcuni, Yemen, Afghanistan e Pakistan. Qui le donne godono di un bassissimo livello di considerazione sociale: non hanno diritto di voto, non possono accedere all’istruzione, sono spesso dipendenti dagli uomini per la propria sussistenza.
E l’Italia?
Fra 170 Paesi analizzati l’Italia si colloca al 28esimo posto, poco prima della Polonia. Un risultato che non gratifica, soprattutto a confronto degli altri Paesi europei, non solo quelli in vetta alla classifica, ma anche quelli che si sono collocati immediatamente dopo come la Spagna (al quattordicesimo posto) e la Francia (15°).
A guardare bene l’elenco, l’Italia si colloca dietro agli Emirati Arabi Uniti, che si trovano al 24esimo posto. Le cause di questa triste performance sono il tasso dell’occupazione femminile, il più basso in Europa (il 31%), e i numeri sugli aiuti/ flessibilità nella gestione dei figli e della famiglia.
La disparità nel lavoro: la spina nel fianco della parità italiana
Secondo l’Indice di disuguaglianza di genere dell’Onu (Gender Inequality Index) che, tra gli altri fatto prende in considerazione due dati come la percentuale di donne in parlamento e la partecipazione al mercato del lavoro, l’Italia è in 14esima posizione, con un punteggio di 63,8, contro la media europea di 68. Anche in questo caso, in vetta alla classifica ci sono Svezia (83,9), Danimarca (77,8) e Olanda (75,9).
La scarsa collocazione italiana è dovuta al lavoro, voce che mette l’Italia all’ultimo posto. Il tasso di occupazione Full-Time Equivalent (o Fte, acronimo che indica la quantità di lavoro prestato nell’anno da un occupato a tempo pieno) è molto più basso rispetto alla media europea (31% vs. 41%) e alla popolazione maschile (52%).
La vita lavorativa delle donne italiane è pari a 27 anni, contro i 33 anni del resto dell’Europa. Infine, la percentuale di dipendenti che possono assentarsi dall’ufficio per prendersi cura della propria famiglia è pari al 19%, contro il 22% in Europa. E questo dà la cifra di come sia difficile gestire carriera e sfera privata per una lady italiana.
La conferma arriva dal fatto che le donne con figli in Italia sono le meno occupate d’Europa. Secondo Istat ed Eurostat, in media, in Unione Europea il tasso di occupazione femminile varia in maniera significativa in base alla presenza di figli: il tasso di occupazione per le donne senza figli è del 67%, (contro il 75% per gli uomini nella stessa condizione); con un figlio, del 72% (e 87% per gli uomini); con tre o più figli, del 58% (mentre per gli uomini è dell’85%).
Il Woman, Peace and Security Index 2021/2022 elaborato dal Georgetown Institute ha anche registrato un miglioramento complessivo sulla strada della parità in tutti i paesi. Ognuno con il proprio passo e in base alle proprie priorità. Un trend che si è confermato nelle ultime edizioni. La speranza è che il cammino non si fermi. In Italia e nel resto del mondo.