Fabrizio De Andrè
Fabrizio De André non è stato solo un cantautore, anche se questo sarebbe
già abbastanza. Lui è stato uno dei maggiori poeti del novecento italiano.
tratto da IperSoap Magazine n. 2 Febbraio 2021 p. 42, a cura di Lara Venè
Il poeta degli ultimi, il cantautore degli emarginati, a cui ha saputo dare voce con una sensibilità di rara bellezza. Fabrizio De André aveva un modo tutto suo, unico e inimitabile, di far emergere le contraddizioni di un mondo di disuguaglianze e solitudini. E aveva la capacità di arrivare al cuore di molti, come dimostrano le immagini del giorno del suo funerale, quando oltre diecimila persone affollarono il Sagrato e le strade della basilica di Santa Maria Assunta di Carignano a Genova, colma di umanità. Era l’11 gennaio del 1999 e a salutarlo per l’ultima volta, arrivarono nella sua Genova persone della politica e dello spettacolo, amici, colleghi e gente comune.
Una marea, che qualche anno dopo, a La storia siamo noi, fece dire a Paolo Villaggio suo amico: “ Io ho avuto per la prima volta il sospetto che quel funerale, di quel tipo, con quell’emozione, con quella partecipazione di tutti non l’avrei mai avuto e a lui l’avrei detto. Gli avrei detto: «Guarda che ho avuto invidia, per la prima volta, di un funerale”.
Paolo Villaggio era per De André un amico carissimo. Fu lui ad attribuirgli l’appellativo di Faber, in onore alla passione
di De André per i pastelli Faber-Castell, che usava per scrivere o per disegnare. E poi anche per l’assonanza con il nome Fabrizio. Così, quel soprannome gli rimase addosso e così amavano chiamarlo in molti e, in particolare, coloro che volevano sottolineare una sintonia più forte con lui, come in una sorta di rapporto esclusivo e privilegiato.
In quasi quarant’anni di attività artistica, De André ha inciso quattordici album in studio a cui devono aggiungersi alcune
canzoni pubblicate solo come singoli e poi riedite in antologie.
Ha venduto 65 milioni di dischi nella sua carriera. Insieme a Bruno Lauzi, Gino Paoli, Giorgio Calabrese, Umberto Bindi
e Luigi Tenco è stato uno degli esponenti della cosiddetta Scuola genovese, un movimento culturale e artistico che si sviluppò a partire anni sessanta del XX secolo nel capoluogo ligure, grazie a questo nucleo di artisti che seppe rinnovare profondamente la musica leggera italiana. De Andé ha sempre nutrito un interesse particolare per le storie di emarginati, ribelli e prostitute, al centro di molti dei suoi testi più famosi, considerati da alcuni critici vere e proprie poesie, tanto da essere inserite in varie antologie scolastiche di letteratura già dai primi anni settanta. Un’attenzione agli ultimi dagli esordi fino alla fine, la sua. Come dimostra la Canzone di Marinella, 1964 (il suo primo 45 giri è del 1961). Questa ballata, resa celebre tre anni dopo da un’interpretazione della già affermata Mina nel 1967, rappresenta il suo esordio: “Nel momento in cui Mina negli Anni Sessanta cantò ‘La canzone di Marinella’ – raccontò De André in un’intervista rilasciata a Vincenzo Mollica – determinò anche la mia vita. Scrivevo canzoni da sette anni, ma non avevo risultati pratici e quindi avevo quasi deciso di finire gli studi in legge.
A truccare le carte è intervenuta lei cantando questo brano; con i proventi SIAE decisi di continuare a fare lo scrittore di
canzoni e credo sia stato un bene soprattutto per i miei virtuali assistiti.
Ci vuole proprio un bel coraggio a cantare con Mina ‘La canzone di Marinella’ perché la sua voce è un miracolo”.
La canzone nasce da un fatto di cronaca nera che il cantautore genovese aveva letto a quindici anni su un giornale di
provincia. La storia di quella ragazza lo aveva colpito ed emozionato a tal punto , come dirà lui stesso da “reinventarle
una vita e addolcirle la morte”. Marinella era una prostituta, come Bocca di Rosa, arrivata a sconvolgere il bigotto paesino di San’Ilario, ma con il potere di diffondere l’amore sopra ogni cosa. E come una delle protagoniste di Via del Campo (singolo uscito nel 1967) una strada, tra i carruggi della città natale dell’autore, di amori mercenari, ma anche di speranza.
Alla fine degli anni sessanta esce anche la Canzone di Piero, che ha come tema principale la guerra. E’ contenuta nel 33 giri Tutto Fabrizio De André, che raccoglie l’intera produzione degli anni 1963-1966, la prima raccolta e primo album di De André. Frutto dei racconti dello zio Francesco che era stato nei campi di concentramento e aveva raccontato al nipote tutti gli orrori della guerra, quando la ballata esce non ha molto successo. Solo qualche anno dopo, nel 1968,
diventerà uno dei brani simbolo del repertorio militante degli studenti di sinistra e in quello dei cattolici, impegnati nelle
lotte per cambiare il mondo.
E, ancora oggi, è considerata la canzone simbolo italiana contro la guerra. Seguono poi altri album stupendi come “La
buona novella” (1970), una rilettura dei vangeli apocrifi, e “Non al denaro né all’amore nè al cielo”, l’adattamento dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, firmato insieme con Fernanda Pivano che la traduce in Italia. Al disco collaborano Nicola Piovani e Giuseppe Bentivoglio, con i quali, nel 1973, lavora a Storia di un impiegato, che venderà più di 120 mila copie. Negli anni ‘78 e ‘79 Faber è in tour con la PFM. Da qui nascono i due live Fabrizio De André in concerto e Arrangiamenti Pfm Vol. 2. Qualche anno dopo, insieme a Mauro Pagani, comincia a progettare l’album “Crêuza de mä”, che esce nel 1984 e a cui seguirà la quarta stagione di concerti. Al centro, ancora gli ultimi, questa volta gli immigrati, sospesi tra speranze e paure.
Crêuza de mä, interamente cantato in genovese, si ispira alle culture etniche mediterranee e, grazie al largo uso di
strumenti etnici acustici, riesce a gettare un ponte fra musica occidentale e orientale; rimane un unicum nel panorama
musicale italiano, decretato da “Musica&Dischi” miglior disco italiano del decennio. Nel frattempo, Fabrizio sta già lavorando con Mauro Pagani al nuovo album “Le nuvole” (1990). Dopo sette anni, nel 1991, De André torna in tour. In
occasione del concerto del Primo Maggio 1992 canta insieme a Roberto Murolo Don Raffae’. Nello stesso anno intraprende la sua prima tournée teatrale, mentre nel 1993 cominciano i preparativi per il nuovo album, “Anime salve”, scritto con Ivano Fossati, che esce nel 1996.
Due anni dopo, scopre la malattia che ce lo porterà via per sempre. Sono passati vent’anni, e manca ancora tantissimo.