Siamo in una tempesta demografica perfetta
Per la prima volta dal 1861 il numero delle nuove nascite in Italia nel 2022 è al di sotto delle 400mila unità, 393mila per la precisione. Al contempo, cala la popolazione: al 1° gennaio 2023 è di 58 milioni e 851mila unità, 179mila in meno rispetto all’anno precedente.
tratto da PiùMe Magazine n. 10 ottobre 2023 p. 26 a cura di Lara Venè
In percentuale è una riduzione pari al 3%. I numeri, che emergono dal report dell’Istat sugli “Indicatori demografici 2022”, ci dicono molto del prossimo futuro del nostro paese e non promettono nulla di buono in termini di crescita, sviluppo e stato sociale se non si corre ai ripari.
Di più: “Il calo delle nascite, insieme all’aumento dell’invecchiamento della popolazione dovuto ad una maggiore sopravvivenza della popolazione anziana e la scarsa attrattività dell’ambiente di lavoro per i giovani, le donne e gli stranieri – spiega la professoressa Rosella Rettaroli ordinaria di Demografia del Dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università di Bologna – sono la condizione favorevole per quello che alcuni demografi chiamano la ‘tempesta demografica perfetta’. La ricetta? Interventi immediati a sostegno di donne e giovani.
Il calo delle nascite
Dall’unità d’Italia, se si escludono le oscillazioni dovute a eventi bellici, la popolazione del paese è sempre cresciuta numericamente fino al 2014, quando si è toccata la punta di oltre 60 milioni di unità. “Oggi abbiamo due milioni di abitanti in meno di cui 8,6% sono stranieri residenti in Italia – fa notare la professoressa Rettaroli”. Siamo ad una inversione di tendenza.
“Perché la popolazione non cali – spiega la professoressa – il numero dei figli per ogni donna dovrebbe essere attorno a 2. Ma da quasi 40 anni è al di sotto. Oggi, 2022, ogni donna mette al mondo in media 1,24 figli. Le ragioni sono sia di tipo strutturale (lo scarso numero di genitori potenziali) e che di propensione alla genitorialità: si decide, per scelta o per costrizione, di fare meno figli rispetto alle generazioni passate e si mettono al mondo sempre più tardi. L’età media della maternità delle donne ha superato i 32 anni”.
La tendenza ad avere meno figli è un fenomeno che ha investito la gran parte dei paesi europei. Anche Svezia e Germania, come l’Italia, hanno raggiunto il loro minimo storico in tempi diversi ma, al contrario di quanto accaduto nel nostro paese, si è intervenuti con politiche mirate che hanno consentito una ripresa efficace e relativamente veloce. “In Germania – mette in evidenza Rettaroli – nel 2010 il numero medio di figli per donna era minore di quello italiano. Ma con politiche di investimento sul welfare familiare e su misure di conciliazione lavoro-famiglia, oggi il numero medio è salito a 1,59 dimostrando che con adeguate risorse le tendenze possono essere invertite”.
Più anziani
Non si fanno figli e nel frattempo il processo di invecchiamento della popolazione è molto forte. Questo accade un po’ ovunque in Europa e nei paesi più sviluppati, ma l’Italia primeggia in Europa con un’età media della popolazione di circa 46 anni. L’invecchiamento incide ora anche sulla proporzione in calo della popolazione in età attiva da cui deriva la forza-lavoro del paese e, di conseguenza, sullo sviluppo e le sue prospettive future. Bastano pochi conti per capirlo. La popolazione che supera i 65 anni incide per circa il 24% sul numero totale della popolazione italiana e arriverà a superare il 35% verso la metà del secolo; i giovani non arrivano al 13%, mentre la fascia d’età compresa tra i 15 e i 64 anni (considerata l’età attiva) ha un peso che ora supera il 60% ma arriverà attorno al 53% tra venti, trent’anni. “Questo aspetto – spiega la professoressa Rettaroli – ha delle positività perché significa che la popolazione vive di più, è maggiormente in salute, è più attiva alla partecipazione sociale ma, di contro, la decrescita dei giovani è un aspetto molto critico perché non c’è sufficiente rinnovo della popolazione attiva che non riuscirà a compensare quella in età non attiva. Le analisi europee ci dicono che dopo il 2050 il rapporto tra ultra sessantacinquenni e popolazione in età da lavoro si assesterà attorno al 50%. In Italia, e questo è uno dei pochi dati certi, la situazione è tra le più critiche se si pensa che da qui al 2040 usciranno dal mercato del lavoro perché andranno in pensione i nati del cosiddetto baby boom.”
Meno forza lavoro meno sviluppo più spese sanitarie
Ciò che accadrà con questi scenari è incerto perché finora una situazione simile non si è mai verificata. Di sicuro questi numeri ci dicono che tra meno di trent’anni poco più di una persona su due sarebbe in età da lavoro, con un 52% di persone tra i 20-66 anni che dovrebbero provvedere alla cura e alla formazione delle persone sotto i venti anni (16%). È chiaro che saremo di fronte a un modello di sviluppo del tutto nuovo con limiti di sostenibilità ancora non chiari: “se diminuisce il numero dei lavoratori e aumentano gli anziani – fa notare la professoressa – il peso demografico si sposta di più da chi produce lavoro a chi consuma attraverso i costi del welfare e quelli sanitari”.
Parola d’ordine invertire la rotta e in fretta. Come? Investire su donne, giovani e immigrati
Se si guarda ai paesi europei più virtuosi, come ad esempio Germania e Svezia, che sono riuscite ad invertire la tendenza al calo delle nascite, se ne deduce che cambiare la situazione italiana è possibile, purché si intervenga in tempi rapidi e soprattutto con politiche continuative e non a singhiozzo. “Per cambiare la situazione – dice Rettaroli – si deve porre mano ad obiettivi di medio e lungo periodo. La demografia non cambia in un giorno ed ha i suoi tempi. Il riequilibrio demografico passa dall’aumento delle nascite, ma ci vogliono 20 anni circa perché i nuovi nati diventino individui in età attiva. Allora, nell’immediato, si dovrebbero valorizzare le risorse che già ci sono e sono ancora poco sfruttate: i giovani, le donne e gli immigrati”.
Favorire, cioè, con aiuti e politiche ad hoc l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro, li spingerebbe ad uscire di casa e farsi una famiglia; incentivare le donne a partecipare al sistema produttivo allineando il dato alla media europea, significa attuare politiche di sostegno alle famiglie, come ad esempio aumentare i posti negli asili nido, lavorare su misure di conciliazione dei tempi delle donne e soprattutto aprirsi ad concezioni di vera parità di genere. E ancora governare i flussi migratori – spiega Rettaroli – per attirare stranieri con caratteristiche che sono utili al paese e con risorse che permettano la loro integrazione. Come ha già fatto la Germania. Su questo aspetto la sensibilità sta aumentando anche nel nostro paese, soprattutto nelle aree più produttive.”