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17 Marzo 2020
poesie_cover

21 marzo, Giornata Mondiale della Poesia: 5 grandi poesie

 

di  Ugo Cirilli

 

 

“La poesia è una lettera d’amore indirizzata al mondo”, disse Charlie Chaplin. Dietro molti componimenti poetici, forse, possiamo vedere davvero un tentativo di amare la vita sempre e comunque, al punto da trasformare in bellezza anche i sentimenti di malinconia.

Scrivere poesie è un’esigenza misteriosa, presente nella nostra storia dall’antichità. Qualcosa che accomuna gli uomini di culture ed epoche lontanissime: come se scegliendo con cura le parole, avvicinandole secondo regole dettate anche dall’emozione, si possa scoprire cos’è essenziale, ci si avvicini al cuore profondo delle cose.

Proprio per il potere di quest’arte di unire i popoli della Terra, nel 1999 l’UNESCO ha indetto e celebrato per la prima volta la Giornata Mondiale della Poesia. Una ricorrenza che si tiene ogni anno il 21 marzo, con eventi a tema come reading e incontri con gli autori.

Tante sono le poesie che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della cultura. Vediamone cinque, che continuano a emozionare le generazioni.

 

“Solo et pensoso” (Francesco Petrarca, 1337 circa)

Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui.

 

Questo sonetto è stato scritto nel ‘300, ma parla ancora al cuore di qualsiasi innamorato/a che si senta alla mercé di un sentimento potentissimo, magari non corrisposto o tormentato.

Uno struggimento interiore porta il poeta a vagare attraverso campi deserti, fuggendo l’incontro con gli altri che noterebbero sicuramente il suo stato d’animo alterato. Il crescente isolamento dà a Petrarca l’impressione che la natura incontaminata, tra boschi e fiumi, sia l’unica vera testimone del suo turbamento. Eppure, una presenza lo segue ovunque vada, un inseguitore che è impossibile seminare: l’amore. Il pensiero della persona amata, per quante distanze possa percorrere l’innamorato, non si allontana di un passo.

 

Petrarca_

 

 

“L’infinito” (Giacomo Leopardi, 1819)

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

 

Nel 2019 sono stati celebrati i 200 anni dalla composizione di una delle più celebri poesie di Giacomo Leopardi, “L’infinito”.

A ispirarla, una situazione che inizialmente potrebbe apparire banale: l’autore giunge sulla sommità del Monte Tabor, che sovrasta Recanati, dove il suo sguardo si sofferma su una siepe che nasconde alla vista l’orizzonte.

Eppure Leopardi sa che, oltre quella vegetazione, si estende un panorama sconfinato, tanto vasto da suscitare in lui una fortissima emozione. La sua mente vola così lontano, fantasticando di spazi infiniti che lo portano a riflettere sull’eternità. Pensieri che quasi spaventano il cuore, facendo avvertire la fragilità dell’essere umano davanti all’immensità del tempo, ma regalano anche un brivido di libertà e di stupore alla mente.

 

Leopardi_

 

 

Spleen (Charles Baudelaire, 1857)

 Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio 
sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni,
e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte,
un giorno nero più triste della notte;

 Quando la terra è trasformata in umida prigione 
dove la Speranza, come un pipistrello,
va sbattendo contro i muri la sua timida ala
e picchiando la testa sui soffitti marci;

 quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, 
imita le sbarre d’un grande carcere,
e un popolo muto d’infami ragni
tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli,

 improvvisamente delle campane sbattono con furia 
e lanciano verso il cielo un urlo orrendo,
simili a spiriti vaganti e senza patria,
che si mettono a gemere ostinatamente.

– E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, 
sfilano lentamente nella mia anima; vinta, la Speranza
piange; e l’atroce Angoscia, dispotica,
pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo.

 

La parola “spleen” significa “milza” in inglese. Un tempo si riteneva che nell’organo andassero ricercate le cause delle tendenze depressive, dell’indole malinconica.

È la noia, in questa poesia, a scatenare l’ispirazione dell’autore: la noia intesa però in un senso profondo, non come banale assenza di svaghi ma come un malessere esistenziale che impedisce alla mente di dirigersi verso pensieri elevati.

Una condizione che fa assomigliare a una prigione anche gli spazi aperti: il cielo appare come “un coperchio sullo spirito”. Più che l’incapacità di trovare distrazioni che associamo al tedio, a pesare è la debolezza della speranza, paragonata a un pipistrello intrappolato.

Un grido di disperazione che giunge nel profondo, spingendoci a mettere in campo tutte le nostre forze per non scivolare in tale condizione. A volte, la poesia colpisce anche per la sua capacita di scuoterci.

 

Baudelaire_

 

 

Mattina (Giuseppe Ungaretti, 1917)

 M’illumino
d’immenso

 

 Una dimostrazione di quanto, a volte, poche parole bastino a suscitare grandi emozioni, quando il poeta le seleziona con cura toccando corde profonde nel lettore.

Il testo e il titolo interagiscono per costruire un quadretto minimale ed efficacissimo, nel descrivere una sensazione di vita e rinascita. La mattina, l’alba di un nuovo giorno, la felicità di accorgersi di essere ancora parte della vita, dell’immensità del cosmo.

Per capire a fondo l’urgenza espressiva racchiusa da queste parole, è utile sapere in quali circostanze “Mattina” venne scritta. Ungaretti si trovava infatti in guerra, arruolato come volontario sul fronte del Carso nel 1917. Nella condizione sospesa di precarietà e paura del conflitto, ogni nuovo giorno appariva come un dono. Ma lo è anche in tempo di pace; per questo la poesia continua ad emozionarci.

 

ungaretti_

 

 

Abbi pietà di me (Alda Merini, 1983)

Abbi pietà di me che sto lontana
che tremo del tuo futile abbandono,
tienimi come terra che pur piana
dia nella pace il suo perdono
od anche come aperta meridiana
che dia suono dell’ora e dia frastuono,
abbi pietà di me miseramente
poiché ti amo tanto dolcemente.

 

Una struggente poesia in cui l’amore è ancora fortissimo nonostante una distanza incolmabile: la distanza imposta dalla morte, che nulla può però contro la forza del sentimento.

“Abbi pietà di me” è un messaggio indirizzato dalla poetessa al marito scomparso: un messaggio che esprime il desiderio di non spezzare un legame, di essere compresa e perdonata per la propria fragilità di fronte al dolore della perdita. Si legge tra le righe un forte desiderio di quiete, una rassegnazione al trascorrere degli eventi purché non venga dimenticato un legame intenso. L’autrice accetta anche di essere trasfigurata in un oggetto o, addirittura, nella “terra che pur piana dia nella pace il suo perdono”; proprio la pace sembra essere il desiderio del cuore, arreso all’ineluttabile.

 

Merini_

 

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