L’evoluzione della moda
di Virginia Torriani
C’era una volta la sartoria, la confezione su misura e l’haute couture. In realtà questo tipo di lavorazione non è completamente scomparsa, ma il panorama del settore oggi è indiscussamente predominato dal prêt-à-porter e dal fast fashion e, in questi primi 20 anni del nuovo millennio, si iniziano a intuire già nuove tendenze e prospettive del sistema produttivo.
È l’evoluzione del fashion system, che come altre industrie è sottoposto alle dure leggi del mercato.
L’origine di questa parabola può essere fatta risalire agli inizi dell’Ottocento, quando, dopo secoli di predominio sartoriale a corte, si andò affinando la tecnica ed iniziarono ad emergere i primi veri stilisti, che crearono nuovi tagli, nuove stoffe e soprattutto nuovi canoni nel modo di abbigliarsi oltre ad un altrettanto inedito rapporto con la clientela, sempre più squisitamente borghese.
Lo sviluppo dell’alta moda alla fine dell’Ottocento segna il successo delle grandi case europee: è Parigi per prima ad affermarsi come capitale mondiale della moda. Vi operano i grandi couturier come Dior, Givenchy, Balenciaga…
Poi, il sorpasso del Made in Italy, quando nel 1951 il marchese Giovanni Battista Giorgini, un brillante imprenditore, organizza a Firenze per stampa, clienti dell’aristocrazia e buyers americani le prime sfilate dei principali stilisti italiani come Schubert, Antonelli, Carosa, Marucelli e le sorelle Fontana: è l’esordio dell’alta moda italiana e si tiene il 12 febbraio nell’abitazione privata di Giorgini, ma già dall’anno successivo viene utilizzata la Sala Bianca di Palazzo Pitti, che per anni sarà sede della moda italiana.
Quando dalla sartoria artigianale e dal vestito su misura si passa alla standardizzazione delle taglie e all’industrializzazione del tessile, che permette la produzione in serie, nasce il ready-to-wear. Questo era il termine coniato negli Stati Uniti negli anni Trenta per identificare quel fenomeno di confezione rapida e a basso costo che apre la strada anche a una certa “democratizzazione” della moda, rendendo le creazioni accessibili a chiunque e non più solo all’élite.
Sviluppatosi in America e poi diffusosi rapidamente anche in Europa, il processo si traduce letteralmente come prêt-à-porter, ovvero in quella linea produttiva oggi realizzata dalla maggior parte delle case di moda, mentre l’haute couture rimane solo, per alcune, come vetrina delle capacità tecniche e creative delle stesse.
La produzione seriale dei capi ben presto porta alla terziarizzazione delle fasi produttive e, spesso, al decentramento produttivo in paesi a basso costo della manodopera.
L’ulteriore punto di svolta della storia è la nascita dei grandi brand low cost di moda, attraverso i quali lo shopping diviene piuttosto che la soddisfazione di un bisogno una forma di intrattenimento.
Gli esperti del settore parlano a questo proposito di “fast fashion”: una proposta di moda che consente a chiunque di vestirsi seguendo le ultime tendenze e spendendo poco, ma con conseguenti ritmi forsennati di progettazione, produzione e distribuzione per soddisfare una domanda crescente di abiti economici e sempre nuovi.
Per avere un’idea del fenomeno basti pensare che oggi le vendite di abiti sono aumentate di circa il 400 per cento rispetto a vent’anni fa. Rammendare e riparare sono termini passati “fuori moda”: un capo economico è sempre più spesso percepito come “usa e getta” e può essere semplicemente scartato dopo averlo indossato meno di 10 volte.
Le conseguenze di questi ritmi forsennati sono pesantissime, sotto diversi aspetti. Il World Economic Forum ha denunciato che l’industria della moda è il secondo settore più inquinante al mondo dopo quello petrolifero.
Secondo il Global Slavery Index 2018, la moda è tra le cinque industrie ad aver approfittato di una pratica infima come la schiavitù moderna: il 58% delle persone che lavorano nel settore, in tali condizioni, si trova nei principali Paesi produttori di cotone o abbigliamento – Cina, India, Pakistan, Bangladesh e Uzbekistan –, e tra queste la percentuale di bambini è altissima.
Simili evidenze negli ultimi anni hanno acceso la consapevolezza della necessità di un’inversione di tendenza, sia tra i consumatori che tra i produttori. Una sempre più crescente clientela attenta alla sostenibilità ambientale e a un’economia circolare di fatto ha stimolato anche la creazione di un’offerta specifica.
Sono diversi i brand nati negli ultimi anni che producono rispettando precisi standard, nel segno dell’etica e del rispetto per l’ambiente: intere collezioni prodotte attraverso tessuti riciclati o naturali, linee produttive del mercato equo e solidale, che conquistano i clienti nel segno del “buy less, buy better”.
Ma c’è di più. La regola del riduci-riusa-ricicla vale anche per la moda: tra swap-party, mercatini vintage, bancarelle dell’usato e app che consentono di mettere in vendita senza commissioni i propri capi dismessi, favorendo la riconversione e la durabilità del ciclo di vita di un indumento, si iniziano a intravedere nuovi modelli di sviluppo del sistema moda, che dovrà necessariamente fare i conti con un mondo sempre più a corto di risorse.